La storia

Il passato…

Il territorio comincia a restituire esili tracce di storia già da epoca romana, con il rinvenimento di una necropoli che la tradizione storica locale fa risalire alla seconda metà del primo secolo. In assenza di scavi approfonditi, i reperti rinvenuti non sono, tuttavia, sufficienti per definire l’entità e la struttura degli insediamenti umani di quell’età.

Tracce più consistenti si hanno a partire dal X secolo con un documento ove si fa menzione di locas et fundas (comprensivi di boschi, case, pascoli, terreni e vigne) a Dova Superiore, Casalbusone, Avvaxoli (forse Guazzolo) e Agneto, delineandosi così il il quadro di una presenza umana già strutturata economicamente e socialmente all’interno degli equilibri del sistema feudale.

Un documento della prima metà del XIII secolo ci dice di una cessione da parte dei signori di Montaldo al Comune di Tortona di tutti i propri beni in val Borbera, dal che se ne dedurrebbe una precedente politica di concessioni enfiteutiche (a partire dalla fine dell’XI
secolo, e quindi saldandosi approssimativamente con la situazione descritta dal documento di Beza, della fine del X secolo) a favore dei Marchesi di Gavi, che rifletterebbe l’esistenza di un certo livello di complessità e organizzazione sociale.

Anche la cosiddetta Castellania di Carrega non offre documenti certi della
presenza di insediamenti stabili e strutturati prima della data del sinodo del 1435 che vede menzionata la villa dell’alta val Borbera e solo in via congetturale si può sostenere una presenza di comunità stabili analogamente a quanto emerge dal documento del 1235 poc’anzi citato che riguarda insediamenti ubicati a quote meno elevate.

Per quanto riguarda la chiesa di Carrega, un riferimento di Goggi a Ossian De Negri la dice documentata già nel secolo XII. Lo stesso Goggi riferisce di un documento del 1281 dove è menzionato Herizone de Vegno. In quella data, se ne deduce, Vegni, insediamento ubicato a oltre 1000 metri di altezza, è già indicato quale luogo di origine di tale Herizone al quale conferisce il cognome in un atto notarile, fatto che deporrebbe a favore di un certo livello di statuto sociale e organizzativo della località in questione.

Anche di Cartasegna il XIII secolo ci restituisce, ancora con il Goggi, la scarna testimonianza di una Chiesa semplice di S. Maria di Cartasegna anno 1220, forse da intendersi come cappella, priva cioè di fonte battesimale.

Un rilievo particolare ha avuto nel territorio di Carrega la presenza della grangia cistercense di Magioncalda per la quale sono documentate intense attività di donazioni, compravendite e permute di terreni avente quale principale protagonista l’abbazia di Santa Maria di Rivalta. Se i monasteri ebbero indubbiamente una funzione nel determinare la nascita degli attuali insediamenti (lasciando traccia di sé più nell’immaginario locale che in resti architettonici), un altro fattore determinante (comune a tutto il Mediterraneo) per il formarsi di insediamenti stabili nelle alte valli fu la pressione esercitata, almeno fino al X secolo (ma per riprendere nei secoli successivi), dei cosiddetti saraceni o pirati barbareschi, le cui incursioni spingevano le popolazioni verso l’entroterra dove, per altro, condizioni ambientali non così sfavorevoli consentivano la coltivazione di vari cereali e il pascolo nelle ampie praterie sommitali strappate alla foresta primaria probabilmente attraverso la pratica del debbio. Un’ulteriore condizione vantaggiosa era fornita ai coloni che si insediavano nelle alte valli dalla vicinanza ai crinali, già da età protostorica importanti vie di transito e commercio. È pertanto da considerarsi di antichissima origine la vocazione commerciale di questi villaggi d’altura e il mestiere ad essa più vicino, quello del mulattiere, che è perdurato (pur in forma ridotta dopo l’apertura della strada dei Giovi all’inizio del XIX secolo) fino agli anni a noi più prossimi.

All’interno del quadro di organizzazione feudale al quale ci rimanda la scarsa documentazione storica a nostra disposizione, si inserisce inoltre, come elemento particolarmente significativo per gli insediamenti delle alte valli, la presenza, persistente fino ai nostri giorni, di forme di organizzazione sociale (servitù orizzontali) che gli storici tendono in genere a considerare pre-feudali e con le quali i potenti dell’epoca non di rado entravano in conflitto come testimoniato da varie fonti documentarie, anche relativamente tarde, tra le quali, per Carrega, il documento di Doria Landi del 1736 che impose severi limiti al potere decisionale e all’autonomia del consiglio dei capifamiglia (vedi Goggi, p. 90).

Queste forme di autonomia organizzativa rispetto ai vari poteri succedutisi nella storia hanno retto la vita sociale ed economica di queste comunità d’altura fino alla prima metà del secolo scorso, pur all’interno di una forma di economia di sussistenza e fronteggiando periodi particolarmente critici come l’età napoleonica, ricordata dagli storici e anche nella memoria locale come “gli anni della fame”.

L’abolizione dei feudi in epoca Napoleonica ha probabilmente determinato o favorito (attraverso processi ancora da chiarire storicamente, in gran parte legati a dinamiche ereditarie) la formazione del moderno regime di piccole proprietà private estremamente frazionate, funzionali ad un’economia di sussistenza, ma oggi per lo più avvertite come ostacolo a progetti di rilancio dell’economia agro-pastorale del territorio.

Dalla metà del XIX secolo, iniziarono sempre più intensi i flussi migratori verso le Americhe, che andarono a costituire una nuova alternativa economica alla già secolare pratica dell’emigrazione stagionale nelle pianure risicole o verso la vicina Genova. Tale fenomeno, da porre in relazione soprattutto alla crescita demografica che interessò anche le alte valli, determinò una significativa riconfigurazione dell’assetto socioeconomico delle comunità della valle del Carreghino e delle valli vicine, e si intersecò in maniera spesso drammatica con i due conflitti mondiali, pesantemente sofferti in termini di perdita di vite umane. L’occupazione tedesca e la Guerra di Liberazione ebbero un fulcro strategico di grande importanza proprio nei paesi delle alte valli e sui crinali scenari di aspri scontri a fuoco tra le brigate partigiane e le truppe di occupazione nazi-fascite.

L’esperienza del tempo di guerra segnò profondamente gli abitanti delle valli che dovettero adattare le secolari forme di solidarietà sociale e resilienza economica alla nuova situazione che irrompeva con la sua drammatica novità nelle strutture di lunga durata del vissuto comunitario. Dopo la fine della guerra si ebbe una rapidissima accelerazione dei processi di trasformazione sociale ed economica.

Per un paio di decenni le comunità delle alte valli riuscirono a conservare, seppure in modalità vieppiù critiche, le secolari forme dell’economia contadina e pastorale di montagna, ma sempre più erose dai movimenti migratori, non più verso le Americhe, ma diretti nelle vicine pianure, da dove sempre più forti giungevano i richiami dello stipendio sicuro e dei nuovi modelli di vita della società del consumo e dello spettacolo.

Con gli anni settanta si compì quel processo di spopolamento e abbandono delle terre alte, quell’estinzione della cultura contadina tradizionale che, secondo Eric J. Hobsbawm, rappresenta il più significativo evento storico del Novecento su scala globale, una trasformazione del territorio umano e naturale che è oggi davanti ai nostri occhi con i numerosi problemi, stimoli e sfide che ci chiama ad affrontare

…e il presente.

La valle del Carreghino, interessata dal progetto dell’Ecomuseo dei Sette Ricordi, ha quindi seguito la sorte della gran parte dei territori montani, appenninici e alpini, d’Italia, ma, più in generale, quell’evoluzione su scala globale delle economie e delle società verso l’inurbamento e l’industrializzazione.

Tuttavia, diversamente da altre consimili aree geografiche, questa porzione di Appennino (che si inserisce in quella più vasta zona che dagli anni settanta è convenzionalmente definita “delle Quattro Province”) ha conservato, per ragioni che sarebbe troppo lungo analizzare in questo ambito, un profondo legame identitario con le proprie radici, che si esplica in varie forme di presenza, conservazione e rivitalizzazione di elementi culturali tradizionali, tra i quali risalta soprattutto la tradizione musicale, incentrata intorno ad un antico oboe popolare localmente denominato “piffero”, al quale è associato un vastissimo repertorio coreutico ancora abitualmente eseguito durante le numerose feste di paese e occasioni rituali, quando risuonano anche i canti della tradizione polivocale locale (le cosiddette buiasche, dal nome del vicino paese di Bogli in val Boreca) e del trallalero diffusosi nel territorio dai primi decenni del secolo scorso.

Ed è proprio avvalendoci di questi elementi che afferiscono alla duplice sfera della cultura materiale e immateriale, quella che la Convenzione UNESCO ICH 2003 definisce Patrimonio Culturale Immateriale PCI (Intangible Cultural Heritage ICH), che abbiamo composto il seguente quadro organico di possibili ambiti di valorizzazione ecomuseale.